Siamo nuvole nere... che diventano pioggia, il diario di Spartaco Carli

LA STRAGE DI CEFALONIA
Cronologia di Riccardo Cardellicchio

Stando agli esperti, Cefalonia sarebbe qualcosa di più di un’isola buona per il turismo naturale e culturale. Sarebbe la terra di Ulisse. Al posto di Itaca, insomma.
Ma i soldati italiani, in quel settembre del 1943, hanno altro cui pensare.
L’8 settembre, l’armistizio unilaterale, inaspettato, li ha posti in una situazione delicata. Ora hanno a che fare con l’ultimatum dei tedeschi: o con noi o contro di noi. Non ci sono scappatoie. Non possono esserci.
Dall’altra parte, devono vedersela con i patrioti greci. Li martellano con volantini che ripetono: “Soldati italiani! E’ giunta l’ora di combattere contro i tedeschi! I patrioti ellenici sono al vostro fianco. Viva l’Italia libera!| Viva la Grecia libera!”. Parole che, in seguito, risulteranno non vere: nessun aiuto, infatti, arriverà loro dai greci.
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Le isole di Cefalonia, Corfù e Zante sono state ritenute “strategicamente molto importanti” con la decisione di Mussolini d’invadere la Grecia, per sottomettere i Balcani. Avrebbe voluto fare tutto da solo. Ma, per costringere la Grecia alla resa,  gli ci è voluto l’aiuto dei tedeschi.
Agli italiani è stato dato il controllo delle isole. Però sotto l’occhio vigile dell’alleato, che si è piazzato ovunque. Al meglio..
Gli italiani sono presenti con il 17°, 18° e il 317° reggimento fanteria e il 33° reggimento artiglieria della 33a Divisione fanteria “Acqui”, al comando del generale Antonio Gandin ;  la 2° Compagnia del 7° Battaglione carabinieri mobilitato; la 27° Sezione mista carabinieri; reparti del 1° Battaglione finanzieri mobilitato; marinai addetti alla batterie costiere;  l’11° Battaglione mitraglieri di corpo d’armata; il 188° Gruppo artiglieria di corpo d’armata; il 3° Gruppo contraereo, e tre ospedali da campo. Qualcosa come dodicimila uomini.
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L’8 settembre qualcuno si è stupito, altri hanno fatto salti di gioia, certi della fine della guerra.
Alle 21.30, il generale Vecchierelli, comandante dell’11° armata, ha inviato un messaggio al generale Gandin: “Seguito conclusione armistizio, truppe italiane 11° armata seguiranno seguente linea condotta: Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non, dico non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con i compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare”.
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Alle 9 del  giorno 9, il tenente colonnello tedesco Barge si presenta al generale Gandin. Gli dice che anche lui ha ricevuto il messaggio da parte del generale Vecchierelli e chiede il rispetto delle disposizioni. Non hanno altro da dirsi, i due.  Gandin sa che i tedeschi, all’alba, hanno cercato di conquistare posizioni strategiche, ma gli italiani glielo hanno impedito.
Alle 9.50, arriva un altro messaggio, che stupisce. I presidi costieri, a partire da mezzogiorno, vanno ceduti ai tedeschi. Con tanto di armi collettive, le artiglierie e le relative munizioni. L’operazione non deve andare oltre le 10 del giorno dopo.

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Il giorno dopo la notizia è sulla bocca di tutti. Gli ufficiali dicono la loro. C’è chi si scaglia contro i tedeschi e chi invece li difende e sostiene che è un dovere continuare a combattere al loro fianco. Dagli ufficiali la discussione passa ai soldati. Le posizioni divergono. Non pochi ritengono arrivato il momento d’unirsi ai patrioti locali. Ma c’è anche chi giudica impresa insostenibile la resistenza.
Mentre si discute, il sergente Baldessari arriva con la notizia che i tedeschi hanno catturato l’intero presidio di Santa Maura. Non basta: il comandante, colonnello Ottalevi, e due ufficiali sono stati ammazzati. I tedeschi hanno preteso la consegna anche delle armi individuali.
Gli ufficiali Ambrosini, Apollonio e Pampaloni , del 33° reggimento artiglieria, e i marinai, con il capitano di fregata Mastrangelo e gli ufficiali, sono i più accaniti contro i tedeschi e non si fidano del generale Gandin. Ricordano che sono stati i tedeschi a insignirlo della croce di ferro per il suo comportamento nella Campagna di Russia. Gandin, da parte sua, valuta la situazione con prudenza.  Non c’è da sperare in un aiuto esterno e i tedeschi sono in grado, nel giro di poche ore, di sopraffarli numericamente. Hanno trecentomila uomini tra Epiro e Jugoslavia, senza contare gli aerei.
Tutto questo lo porta a propendere per trattare una resa onorevole. Comunque, decide di sentire il parere degli ufficiali dello Stato maggiore e i comandanti di reggimento.
I più sono per la consegna delle armi.
Intanto il comando tedesco ha ricevuto un dispaccio, che parla chiaro. In caso di resistenza, dare ultimatum a breve scadenza. Gli ufficiali, che non abbiano dato l’ordine di consegna delle armi, devono essere fucilati.
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L’ultimatum, firmato dal tenente colonnello Barge, ha nove punti. Pretende il disarmo totale della divisione. E deve avvenire nella piazza principale di Argostoli, davanti agli abitanti. Ai quali gli italiani non devono consegnare alcun tipo di materiale. In caso di sabotaggi e violenze nei confronti dei tedeschi, ci saranno interventi senza riguardo. Agli ufficiali e ai soldati disarmati viene promesso un trattamento cavalleresco.
Gandin è impressionato, ma non china la testa.  Con una lettera, chiede chiarimenti. Precisa che il tempo a disposizione è poco.
Nello stesso tempo,  l’artiglieria e i marinai si rifiutano d’accettare l’ultimatum e mettono insieme un piano d’azione contro i tedeschi. Poi cercano contatti con i patrioti greci.
Il tenente colonnello Barge risponde alla lettera di Gandin con una sola concessione. Le armi vengano consegnate fuori Argostoli, senza intervento della popolazione.
A un’ora imprecisata (le versioni contrastano), il generale Rossi, vice del generale Ambrosio, capo di stato maggiore, invierebbe il radiomessaggio: “Considerare le truppe tedesche nemiche”.
Nel pomeriggio, alle 17, il generale Gandin incontra i sette cappellani della Divisione. Chiede: “Che devo fare?”.
Uno risponde: “Non bisogna cedere”. Gli altri sono di diverso avviso: “Le armi vanno cedute”.
Mezz’ora dopo il generale Gandin è con il tenente colonnello Barge. “Chiedo tempo fino all’alba”. Per dimostrare che non bluffa, promette di ritirare i reparti appostati sulle alture di Kardakata. Il che può consentire ai tedeschi di sbarcare i rinforzi senza problemi.
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Il giorno dopo, il 12, arriva l’ordine che il II battaglione del 317° deve lasciare Razata. Numerosi soldati la prendono male. Incrociano le braccia. Si rifiutano di caricare  mitragliatrici e munizioni. Arriva il comandante del battaglione, il maggiore Fanucchi. Che non viene accolto bene. Una fucilata lo prende di striscio a un braccio. Fatto grave. Inaspettato. Però serve a far rientrare la protesta.
La situazione è confusa. La Marina si mette in contatto, via radio, con le forze alleate, che sono a Malta. Il capitano Gazzetti viene ammazzato dai tedeschi perché ha detto no al sequestro del camion su cui sono suore, marinai e armi. Barge parla di nuovo con Gandin. I tedeschi fanno prigionieri gli italiani addetti alle batterie costiere.   Il tenente colonnello Fioretti si rivolge, severo, a gli ufficiali Amos Pampaloni e Renzo Apollonio. Urla: “Siete qui come comandanti di reparto o come capibanda?” I due non vedono l’ora di scagliarsi contro i tedeschi. Un carabiniere lancia una bomba a mano contro l’auto del generale Gandin. Fortuna che non esplode.
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Alle 2 del  giorno 13. Il tenente colonnello Siervo raggiunge Pampaloni. Gli dice: “Il vostro battaglione, su ordine di Gandin, deve sistemarsi al cimitero di Argostoli”.
“Si lasciano scoperte le tre batterie che presidiano il porto. Non mi sembra una bella mossa. Vi prego di far revocare l’ordine”, replica Pampaloni. Ma Siervo non gli dà ascolto.
Alle 6, aerei tedeschi prendono di mira i piroscafi italiani ch si sono mossi da Patrasso. Alla stessa ora, ad Argostoli, Apollonio è svegliato da Pampaloni. Gli dice: “Due motozattere tedesche, piene di uomini e mezzi, stanno per attraccare non lontano dal comando di divisione”. Apollonio allerta Ambrosini,  capo delle batterie. Appena sono a tiro, sparano contro le due imbarcazioni. Una affonda, l’altra riesce ad attraccare. I tedeschi reagiscono. Interviene Barge, ordinando ai suoi il cessate il fuoco. Poi contatta Gandin. Gli chiede di fare lo stesso. Gandin acconsente e incarica il capitano Postal di trasmettere l’ordine, quelli della 5a batteria rispondono picche. Non accettano ordini da traditori. Loro rispondono soltanto ad Apollonio. Pascal lo raggiunge. Apollonio reagisce: “Non è vero, i tedeschi stanno sparando”.
Postal scuote la testa: “Questione di minuti”.
“Va bene, si smette dopo che hanno smesso loro”.
Postal s’arrabbia: “Qui va a finire male”.
Tedeschi e italiani cessano di sparare. I tedeschi contano cinque morti e otto feriti. Gli italiani, un ferito grave.
I tedeschi cercano d’ammorbidire l’ambiente. Lo fanno  in maniera maldestra. Dicono: “Cedete le armi, concentratevi nei porti di Sami e di Poros, e vi riportiamo tutti i patria”. Per tutta risposta, altri ufficiali si schierano contro l’ex alleato. Gan din, prudente, fa diffondere un suo messaggio: “Comunico che sono in corso  trattative con rappresentanti il Comando supremo tedesco allo scopo di ottenere che alla Divisione vengano lasciate le armi e le relative munizioni”.
Il generale Lanz è di tutt’altro avviso. Per lui, chi resiste va fucilato. E  se le armi non vengono cedute, ci penseranno le forze armate tedesche a prenderle con la forza. Per lui la Divisione, sparando contro truppe e navi tedesche, ha compiuto un aperto ed evidente atto d’ostilità.
I tedeschi, nella piazza Valianos di Argostoli, provocano ammainando la bandiera italiana. La reazione degli italiani àè immediata. Il tricolore torna al suo posto. I tedeschi se ne vanno, disarmati. I tedeschi tentano di sbarcare a Corfù .Vengono respinti.  Ambrosini, Apollonio e Pampaloni sono convocati da Gandin. Ghezzi, il vice, rivolto a Pampaloni quasi urla: “Sei una testa calda”.
Pampalloni replica: “Le truppe parlano di tradimento da parte del comando di Divisione. Fate voi”.
La notizia impressione Gandin e Ghezzi. E’, a questo punto, che indicono un referendum /c’è chi mette in dubbio che sia avvenuto) tra i soldati. Viene fuori che la maggior parte non ha un briciolo di fiducia nell’ex alleato. Gandin comunica il risultato ai tedeschi. E’ il giorno 14.
Il tenente colonnello Barge dice ai suoi di stare pronti: da un momento all’altro può venire l’ordine d’attaccare gli italiani. Intanto, sull’isola arrivano altri – numerosi – tedeschi. Gli italiani sono soli. Nessuno che pensi d’aiutarli..
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Il giorno 15, i tedeschi occupano postazioni strategiche. Ma gli italiani non si arrendono. Anzi. Il 33° Reggimento d’artiglieria e le batterie della Marina si distinguono. Peccato che abbiano poche munizioni. Nei combattimenti, l’esercito italiano perde 1.300 uomini.
Il 22 settembre, il generale Gandin convoca un nuovo consiglio di guerra. Dice: “Conviene arrendersi. Siamo inferiori numericamente e manchiamo di munizioni”. La situazione è drammatica. Le perdite sono rilevanti.  La maggioranza è d’accordo.. Allora qualcuno prende una tovaglia bianca e la espone sul terrazzo del comando.
Sbaglia chi si aspetta un trattamento umano. Hitler in persona ordina la fucilazione degli italiani. Dice: “Sono traditori”.
Rastrellamenti e fucilazioni vanno avanti fino al 28 settembre. Non si salva neanche il generale Gandin.
Compiuta la carneficina, si provvede a bruciare i corpi e a gettare in mare i resti. Altri vengono sepolti malamente. I superstiti sono imbarcati su navi. La loro destinazione sono i lager di Germania, Polonia e Unione Sovietica. Ma due navi finiscono in zone minate e affondano. E una terza, la “Rosselli”, entra nel mirino degli aerei alleati, che non sanno del carico., e cola a picco. Altri, a migliaia, vengono internati. Pochi faranno ritorno.
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Le cifre sulle perdite degli italiani divergono. L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia parla di quasi diecimila vittime: 390 ufficiali e 9.500 soldati. Alfio Caruso, in “Italiani dovete morire”, di 1.300 morti nei combattimenti, 5.000 fucilati e 3.000 scomparsi in mare. Arrigo Petacco: 400 ufficiali, 5.000 soldati e 2.000 morti in mare. Sopravvissuti meno di 4.000.
A Cefalonia, tra ufficiali e soldati erano quasi dodicimila.
Non andò meglio a Corfù, Zacinto e Sant Maura (Leucade). Gli italiani, senza più munizioni, si arresero il 26 settembre. Il comandante, colonnello Lusignani, venne fucilati con ventotto ufficiali.
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Testimonianze. Mariano Barletta: “Alla sventagliata della mitragliatrice seguì un profondo silenzio. Ero disteso con la gamba destra allungata, la sinistra leggermente piegata nel ginocchio, le braccia in lieve arco intorno alla testa e le mani come rattrappite; trattenendo il respiro, quasi reprimendo i battiti del cuore, procuravo che ogni cosa avesse in me l’aspetto dell’abbandono esamine della morte. Attraverso le palpebre socchiuse nulla potevo vedere oltre kil palmo di terriccio a contatto del viso, né percepivo voci o rumori: unico segno di vita il monotono frinire delle cicale”.
Nicola Russigno: “Quando lo racconto, non mi credono. Eppure a Cefalonia, nel settembre del 1943, c’erano i miei colleghi ufficiali che si offrivano volontari per la fucilazione. ‘Vado io, così la facciamo finita’. C’era quasi una gara per andare prima degli altri davanti al plotone. Ecco, se si capisce unma cosa come questa, si può comprendere cosa sia stata la tragedia di Cefalonia”. E aggiunge: “C’era il prete, don Formato, con la croce in mano che confessava e benediceva. Ci orendevano quattro alla volta, ci portavano sull’ortlo di un fosso e sparavano. Così i corpi sparivano. Io mi sono salvato perché ero nell’ultimo gruppo. Avevo già dato la fotografia a  don Formato, perché la mandasse a mio padre. A un certo opunto, il prete si è messo a geridare: ‘Basta, soldati tedeschi. Ne avete ammazzati abbastanza. State fucilando da questa mattina. Salvate almeno questi jultimi’. E così ci hanno tenuti come prigionieri”.
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La polemica. Paolo Deeotto, in “Ecco la verità sulla strage di Cefalonia, afferma: “I morti di Cefalonia pesano su diverse coscienze: sul governo italiano, che emanò un ordine di resistenza (quello del 13 settembre) senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze. Sugli alleati, che cinicamente lasciarono massacrare i soldati italiani,, non solo non muovendo, loro stessi, un dito, ma bloccando l’unica iniziativa di soccorso, quella organizzata dal contrammiraglio Galati. Su re, su Badoglio, sul generale Roatta, capo di stato maggiore, su quanti il 9 settembre pensarono così precipitosamente a mettersi al sicuro da scordarsi che da loro dipendevano centinaia di migliaia di uomini, poco armati materialmente e moralmente, in balia di un alleato (non ancora ex), che non aveva mai dato prova di particolare dolcezza e remissività”.
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Il 1* marzo 1953, Luigi Einaudi, allora presidente della Repubblica, riceve i resti recuperati di alcuni soldati.
Nell’ottobre 1956, la strage viene insabbiata in nome della ragion di Stato. Gaetano Martino, liberale, ministro degli Esteri, propone al democristiano Paolo Emilio Taviani, ministro della Difesa, di affossare ogni percorso di giustizia, in none della rinascita dell’esercito tedesco, necessario alla Nato, in contrapposizione all’Unione Sovietica.. Taviani accetta. E la giustizia viene sepolta..

Il 1° marzo 2001, Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica, visita Cefalonia e, nel suo discorso, afferma che la scelta consapevole della Divisione Aqui fu il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo.

Momenti della presentazione del libro