Nulla per sempre


Ci sono parole ed episodi della vita quotidiana – eventi semplici e frasi comuni – soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza, che rimangono impressi nella memoria di ciascuno di noi e ne formano, per così dire, uno degli strati più profondi e più intimi, accompagnandoci per tutto il resto dei nostri giorni, dando al nostro trascorrere il giusto tono e il giusto colore. Talvolta discreti e ammiccanti, qualche altra volta più invadenti e rumorosi, questi episodi e queste parole, seppure non presenti in maniera assillante davanti agli occhi o dentro le orecchie, continuano a vivere la loro presenza sotterranea e a scandire il rapido staccarsi dei foglietti del calendario. Sono, benché fantasmi, i nostri compagni più sicuri, una presenza calda e rassicurante, nella quale, in un certo senso, trovare riparo durante le tempeste che l’esistenza non ci risparmia.
Ecco, leggendo i racconti di Beppe Chelli, riuniti ora in un piccolo volume, credo sia questa l’impressione forte che se ne ricava. Beppe, persona normale, cioè senza ghiribizzi letterari per la testa, ha convissuto – come tutti, del resto – con i suoi ricordi in sottofondo, finché – ormai ottuagenario, come il Carlino delle Confessioni di Ippolito Nievo, decide di affidarli alla tastiera del pc e poi si lascia convincere a darli alle stampe. Al contrario di Carlino, non ha niente da farsi perdonare, Beppe; semmai deve chiarire il proprio rapporto con il retaggio della cultura contadina ereditata da un’altra epoca - ormai mille anni fa, tra le due guerre mondiali – oggi del tutto disintegrata sotto il maglio dell’industrializzazione e polverizzata nella subdola promiscuità del web; e fare i conti con un episodio che devastò, con la sua, l’esistenza dell’intera popolazione sanminiatese: il passaggio del fronte di guerra, la semidistruzione della città e l’eccidio del duomo nel luglio del 1944. In quest’ultimo tragico avvenimento, vissuto dal vivo con gli occhi puri del bambino che era, perse la vita il fratello maggiore di Beppe, una delle “vittime del duomo”; e qui, tra le macerie e i brandelli della cattedrale, tra lo strazio dei corpi dilaniati, la polvere e il fumo che entrano nei polmoni e le urla che ne prorompono, va ricercata la chiave che riesce, meglio di qualsiasi altra, a farci comprendere le ragioni di Beppe Chelli uomo e ora quelle della sua scrittura.
Alle sapide ricostruzioni di vita quotidiana e alla descrizione divertita dei personaggi che di quel passato remotissimo erano i modesti protagonisti, si potrebbe mischiare un pungolo di rabbia e, se vogliamo di risentimento o di rancore, contro il destino che ti fa trovare proprio in quel momento in quel preciso luogo dove viene a terminare il suo volo mortale quel dannato proiettile di cannone, contro chi ha esploso quel colpo, contro quelli che, dopo, hanno cercato di barare, di imbrogliare le carte e di accreditare una verità strumentale. E proprio qui avviene il miracolo, se così si può chiamare, qui si realizza e si manifesta lo scarto che porta la vita a farsi scrittura, testimonianza che nulla dura in eterno, che il tempo passa e cambia tutto – ma che non passa invano. Nei racconti della trilogia di guerra, Beppe, uomo maturo seppure scrittore in erba, ci fa capire che il tempo, col suo veloce inseguirci, può essere lasciato fruttare per raggiungere da vivi le sorgenti del Lete e di Mnemosine, in pace con se stessi e con gli altri, ringraziando chi di dovere di ciò che si è avuto modo di vivere e di sperimentare. Il vuoto che una morte – tanto più una morte in mezzo a una strage – lascia nella mente e nel cuore di un bambino che la morte l’ha vista in faccia, non bastano dieci esistenze a colmarlo. È però possibile acquietare la rabbia e il rancore in una dimensione che, se non fa diminuire il dolore, riesce a fare che questa pena profonda si manifesti in modo asciutto, senza lacrime; che da fantasma essa sia trasformata in compagna, in un tesoro inestimabile che arricchisce e nobilita; insomma, a dare la certezza che non sono più gli eventi a governare la nostra vita e che siamo finalmente ritornati padroni delle nostre emozioni e dei moti del nostro cuore. Il sentimento che lega Beppe alla memoria di quei giorni e ai suoi personaggi è pari solo alla leggerezza (una via di mezzo tra l’affetto e l’ironia) con cui sa rievocarli. Ci vuole poco a fare che il legame emotivo degeneri in sentimentalismo o, al contrario, tiri alla burletta, tanto per strappare un sorriso di complicità; o che il tornare indietro con la memoria generi il trompe-l’oeil della nostalgia, il rimpianto per qualcosa che comunque non può essere riguadagnato. Se traspare un filo di controllata nostalgia (i francesi lo chiamano, non a torto, le mal du pays) è nel confronto tra quel mondo scomparso, tra quel paese che non esiste più, e il degrado dei nostri giorni. Ed è proprio la considerazione di questo degrado a mettere in moto il meccanismo e a richiamare nel discorso ciò che fino a quel punto ne era rimasto fuori.
Le storie minime o la grande Storia riempiono le pagine, una dopo l’altra, di scrittura sapida e divertita, attenta e concentrata, talvolta commossa, ma sempre diretta alla narrazione, senza decorazioni né orpelli, per i quali non c’era posto nel mondo contadino qui rievocato. Una freschezza espressiva raggiunta con una miscela equilibrata di italiano parlato, di innesti vernacoli e di quella lingua sanminiatese “bassa” che si parlava sulle lastre dell’antico borgo e nelle campagne prima che il basic televisivo diventasse l’espressione ufficiale del popolo italiano. A chi quell’epoca ha vissuto, nel leggere i dialoghi o gli interventi in prima persona dell’Io narrante, sembra di riudire la propria voce di quegli anni, e di avere ancora sotto gli occhi quel piccolo mondo in cui tutti si conoscevano e la miseria era quasi per ognuno il teatro in cui recitare senza vergogna il proprio ruolo, con la fame sempre in agguato a far capolino dietro l’angolo, cucù, sorpresa!
Cose d’altri tempi. Tutto cambia, e anche noi siamo cambiati. Scusateci se siamo vecchi. Anche se non saremmo disposti a tornare indietro, quello era il mondo in cui siamo nati e cresciuti, ce lo portiamo sempre con noi, con la speranza che qualcosa non ci conduca davvero a doverlo rimpiangere. Considerando il risultato, viene da chiedersi perché Beppe abbia aspettato così tanto tempo a prendere la penna e a darci la sua opera prima.

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Quando Beppe Chelli, dopo avermi fatto leggere i suoi racconti, mi chiese se ero disposto a fargli qualche schizzo per le illustrazioni, ho aderito volentieri alla sua richiesta. Mi premeva dare un contributo che riuscisse a convivere con la leggerezza delle sue parole. Così ho scartato l’idea delle illustrazioni vere e proprie e mi sono risolto a disegnare, oltre alla copertina, delle vignette per capolettera che riportassero l’impaginazione alla elegante sobrietà dei libri quando i libri si componevano a mano con i caratteri di piombo. Dato l’argomento, ho pensato a un omaggio a quei geniali illustratori che furono, nella prima metà del secolo scorso, Duilio Cambellotti, il cantore delle campagna e della maremma laziale, e Pietro Parigi, il nostro Pietrino, che con le sue incisioni per il Dramma Popolare ha scandito buona parte della nostra giovinezza. Dalle loro opere ho tratto gli spunti e talvolta gli elementi grafici che mi hanno permesso di realizzare le mie operine. Ringrazio Beppe per avermene dato l’opportunità.
Rossano Nistri, 22 Settembre 2012